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La corsa alla perfezione e al soddisfacimento dei canoni estetici suggeriti dalla cultura ha il suo rovescio della medaglia. Si chiama body shaming e consiste nel deridere una persona per il suo aspetto fisico. Il termine nasce da un recente neologismo di matrice anglosassone, ma definisce un fenomeno sociale che affonda le sue radici molto più indietro negli anni. La diffusione del web e la proliferazione dei social network rende questo fenomeno ancora più pericoloso, tanto da costringere i genitori a controllare i figli su internet. Per capire come combatterlo adeguatamente, vediamo più nel dettaglio che cos’è il body shaming, quali sono i soggetti più a rischio e come contrastare il fenomeno.
Che significa body shaming? La traduzione del termine, entrato nel vocabolario Treccani nel 2018, significa deridere qualcuno per il proprio aspetto fisico. Ad essere presa di mira può essere qualunque caratteristica fisica. Lo shaming body riguarda indistintamente altezza o bassezza, magrezza o adiposità, presenza o assenza di peli. Ma non solo. Può essere bersaglio di scherno anche chi ha (o non ha) piercing o tatuaggi, o chi ha malattie o disturbi giudicati antiestetici. Soggetti con acne, psoriasi, alopecia possono essere presi di mira da chi fa body shaming.
La vittima del body shaming viene dileggiata per una qualunque caratteristica fisica che chi offende non ritiene in linea con i canoni estetici imposti dalla società. Chi pratica questa forma di violenza pone i propri canoni estetici come normali e necessari per considerare una persona apprezzabile.
Alcuni tipi di body shaming prendono le mosse dalle superstizioni popolari o da convinzioni culturali. Appartengono a questo genere, ad esempio, i pregiudizi contro le persone che hanno i capelli rossi. Va detto che i canoni estetici cambiano in base all’epoca in cui si vive, aprendo la strada a forme di discriminazione sempre nuove.
La diffusione a macchia d’olio dei social network, poi, ha aumentato la portata del fenomeno. Nascondendosi dietro uno schermo è più semplice ricorrere all’invettiva, con la quasi assoluta certezza (o convinzione) di non venire scoperti. Anche per questo è fondamentale che genitori e figli sui social siano informati e dialoghino apertamente. Madri e padri hanno infatti il dovere di educare i più giovani al corretto uso delle nuove piattaforme di comunicazione.
Chiarito che cosa è il body shaming, è opportuno rimarcare un concetto: questo genere di discriminazione è piuttosto “democratica” e colpisce entrambi i sessi.
Uno studio condotto negli Stati Uniti da Yahoo Health, su un campione di 2.000 teenagers, ha rivelato che sono state vittime di body shaming il 94% delle ragazze e il 65% dei ragazzi.
Per quanto riguarda gli uomini, argomenti di scherno preferiti sono la muscolatura o le dimensioni dei genitali. Le donne vengono prese di mira principalmente per dimensioni e forma di fianchi, seni e natiche. Un’indagine condotta da Nutrimente Onlus ha evidenziato che le parti maggiormente dileggiate sono gambe, pancia, fondoschiena e fianchi. Le donne sono sia vittime di fat shaming, se hanno qualche chilo di troppo, che di thin shaming, ovvero di insulti legati all’eccessiva magrezza.
Nel mirino dei body shamers finiscono soprattutto le neo-mamme, il cui fisico è giocoforza sottoposto ai cambiamenti post-parto. I soggetti più esposti sono, però, inevitabilmente gli adolescenti. Chiamati a vivere quotidianamente con i loro coetanei, i giovani sono alla continua ricerca di accettazione sociale. A loro sfavore depongono i modelli estetici troppo spesso inculcati dai mass media, capaci di fornire terreno fertile a chi fa body shaming. Con tutto ciò che di grave ne consegue, fino alle forme di bullismo e cyberbullismo in cui sovente sfocia questo fenomeno.
Il peggior nemico del body shaming? Il silenzio. Finora abbiamo detto del body shaming cos’è e cosa prende di mira, senza però chiarire i contorni di un fenomeno che può trasformarsi in un reato. Chi lo pratica, infatti, può rispondere dei reati di diffamazione o stalking.
Nei casi più drammatici, inoltre, può integrare l’ipotesi di istigazione o aiuto al suicidio. Ai sensi dell’art. 580 del Codice Penale, questa fattispecie si verifica quando un soggetto, tramite il suo comportamento, determina altri al suicidio o ne rafforza il proposito di togliersi la vita.
A gennaio del 2020, inoltre, la Camera dei deputati ha accettato la proposta di legge contro body shaming e fat shaming. Questa prevede 8 articoli che vanno a integrare la legge sul cyberbullismo approvata nel 2017.
Chi resta vittima di body shaming deve quindi avere la forza di denunciare l’accaduto presso le autorità competenti. Una pratica purtroppo non ancora consolidata, specie perché le vittime sono soggetti fragili e spesso minorenni. Per i quali il concetto di “amarsi così come si è” non è sempre di facile comprensione.
La denuncia non è l’unica forma di reazione al body shaming. Nel 2020 è stato attivato un numero telefonico (il 114) che offre assistenza gratuita 24 ore su 24. Inoltre è stata prevista un’app anti-violenza. Sebbene la giurisprudenza si stia attivando per porre più attenzione verso questa piaga, l’allerta deve restare massima. Non sono rari i casi di body shaming sfociati in altro: dal bullismo a scuola, all’anoressia e alla bulimia, fino a quelli più drammatici che hanno portato al suicidio.
La derisione ha una cassa di risonanza maggiore se viaggia sui social network, Instagram su tutti. Diverse celebrità, da Katy Perry a Billie Ellish fino ad arrivare ad Arisa, si sono messe a nudo per combattere il body shaming mostrando le proprie imperfezioni. Grazie ai loro messaggi è nato un fenomeno spontaneo noto come Body Positive, ovvero accettarsi per ciò che si è.
I messaggi dei vip non possono tuttavia essere l’unica forma di contrasto. Il ruolo pericoloso giocato dai social network deve essere controbilanciato da quello dei genitori e della scuola. Nel momento in cui si permette ai più giovani di accedere al web attivando delle offerte di abbonamento ad internet, gli adulti hanno il dovere di monitorare ed educare i ragazzi ad una condotta consapevole sul web. Le insicurezze, i dubbi e il senso di inadeguatezza dei soggetti più deboli rischiano di minare seriamente la loro capacità di relazionarsi al prossimo. Ecco perché la battaglia da combattere è di carattere culturale e sociale: far comprendere che l’autostima non passa dai commenti (e dagli insulti) sui social.